[STORIE] La bambola del Serpente – Capitolo 2

Scritto da Shekinah

I Vampiri non sognano. Almeno non nel senso comune del termine. Il cervello di un vampiro è sostanzialmente tenuto in vita dal sangue che beve.
Oltre a darci capacità e poteri oltre l’immaginabile umano, il sangue mantiene attivo il nostro cervello. Una piccola dose di vitae viene utilizzata ogni notte dal nostro corpo per mantenerci vivi e se ci viene strappato dal corpo tutto il sangue che abbiamo nelle vene cadiamo in uno stato di torpore, di sonno profondo e nero. Quando un vampiro raggiunge quello stato non rimangono che due cose da fare: ucciderlo o nutrirlo con altro sangue.

Quando arriva l’alba noi vampiri sentiamo la stanchezza, le membra farsi pesanti ed il cervello offuscarsi. Solo con dispendio di sangue e con una grande forza di volontà possiamo resistere al sonno diurno, ma non tutti ne sono capaci. Il sonno derivante dall’arrivo del giorno, però, è diverso dal torpore che ci coglie quando non abbiamo più sangue nelle vene, ed è diverso dal sonno derivante da un sonnifero mescolato al sangue.
Molti sono convinti che le droghe non abbiano effetto su di noi, niente di più sbagliato. Medicinali e droghe, se mescolate con il sangue umano, sortiscono su di noi lo stesso effetto che hanno sugli umani, solo, forse, più blando.
Ecco dunque cosa mi era accaduto sull’aeroplano. Nel calice offertomi era stato mescolato un sonnifero. La mia stanchezza dovuta alla giornata passata sveglia, unita alla fame non mi hanno resa abbastanza lucida da potermene accorgere.
Quando caddi riversa sul sedile, tenutavi ancorata solo grazie alla cintura che non avevo mai slacciato la mia mente sognò nell’unico modo in cui sogna un vampiro: ricordando.
Si dice che quando una persona muoia le scorra davanti agli occhi la propria vita, ebbene, noi vampiri siamo costantemente a metà tra la vita e la morte, così i nostri ricordi arrivano sotto forma di sogni e c’invadono la mente.
Non sentivo più la voce di Jack, né la risata bassa e divertita di DelDuca, non mi accorsi nemmeno delle mani della hostess che sistemavano più comodamente il mio corpo sulla poltrona, coprendomi con una coperta, sebbene io non ne avessi bisogno. Forse per pudore, visto che indossavo solo una misera camicia di cotone grezzo.

Mi trovavo al centro di una radura, nella boscaglia attorno al villaggio. Come macumbera anziana, come bokor di talento, avevo il dovere e il privilegio di mostrare alle novizie i passi da seguire per il rituale che avremmo dovuto svolgere di li a qualche notte per onorare i Loa. Una calma piatta si era appoggiata sulla vegetazione e sulle acque del fiume, non lasciava presagire niente di buono, ma c’era troppo poco tempo per preparare le ragazze e Mama Noemi non aveva intenzione di perdere le ultime ore di luce del giorno. Mossi un passo, allungando le mani, in un primo lento movimento. Una bava di vento s’infilò tra gli alberi, facendoli frusciare e scompigliandomi con leggerezza i capelli. Quel vento mi sembrò un segnale per cominciare a danzare, in un susseguirsi ora lento ora più rapido di passi di una danza tribale che affondava le sue radice nella notte dei tempi. Le frange del gonnellino di pelle di capra aveva iniziato ad ondeggiare, dapprima mosso solo dalle mie gambe, poi sollevandosi all’inseguimento del vento che via via si stava facendo più fastidioso. Quando le fronde avevano iniziato a frustare l’aria e il cielo aveva rivelato i primi segni della tempesta imminente, Mama Noemi si era guardata attorno e dopo un attimo di smarrimento si era affrettata ad ordinarci di correre al villaggio.
Non era una delle solite tempeste tropicali. Era un uragano, che avanzava verso la nostra isola, cogliendoci completamente impreparati ad affrontarne la potenza.
Lasciai che le altre mi precedessero ed accompagnassero Mama Noemi al sicuro ed io mi fermai ad osservare la radura scossa da quelle potenti folate di vento che ben presto cominciarono a farmi barcollare. Avevo una strana sensazione, mi sembrava di aver già vissuto quell’esperienza eppure non ricordardare cosa sarebbe successo mi sconvolgeva.
In pochi istanti, l’aria, da frizzante era diventata gelida ed il cielo da grigio a nero, come se in poche frazioni di secondo fosse precipitata la notte sul caldo pomeriggio tropicale. Le prime gocce d’acqua risuonarono su ogni foglia della foresta come le mazze di un tamburo tribale, a quel ritmo le mie gambe si mossero di riflesso. Mi gettai tra la boscaglia, tentando di raggiungere le altre donne. I piedi nudi affondavano nel sottobosco viscido di pioggia, sentivo freddo, tremavo di paura, sospinta dal vento. Riuscii a scorgere una sagoma davanti a me, si nascondeva dietro una coltre grigia di polvere, acqua e vento che mi sferzava il viso, impedendomi di vedere chiaramente.
Sentii le grida concitate delle ragazze davanti a me, gli occhi mi bruciavano per la polvere e la pioggia e i rami bassi mi avevano frustato la pelle lasciando sottili rivoli rossi dove l’avevano tagliata; poi una fitta improvvisa alla caviglia sinistra mi fece perdere l’equilibrio. Allungai le mani avanti in un gesto istintivo ed arrivò l’impatto del terreno molliccio, intriso di pioggia, sotto le mani e le ginocchia. Sulla caviglia una fila netta di buchi piccoli e rossi, un morso. Col cuore martellante avevo sollevato gli occhi girandoli, frenetica, sull’erba mossa dal vento fino ad incontrare la testa dalle ali ondeggianti del rettile. Un cobra. Qualcosa mi disse che il martellare del mio cuore era fuori luogo, che quello che vedevo non era naturale, eppure sentivo il cuore battere, il respiro bloccarsi in gola nonostante la necessità di respirare. La vista aveva iniziato ad offuscarsi e portai le mani a ripararmi dall’attacco del rettile che strisciava verso di me. Gridai di paura, o almeno credo, mormorai una preghiera ai Loa, poi il mondo si dissolse.
D’un tratto qualcuno mi aveva coperta e sollevata di peso. Aprii gli occhi, l’indispensabile per guardare cosa stesse succedendo, attaccandomi all’irrefrenabile voglia di vivere. Conoscevo le divise dell’Esercito Americano dopo l’arrivo degli aiuti umanitari in seguito alle numerose tempeste. Riconobbi la divisa di un soldato, stava portandomi in braccio, camminando senza troppo sforzo attraverso l’uragano. Sotto la patina luccicante d’acqua il volto pareva lucido e solido, squamato, quasi come quello di un serpente. Il soldato procedeva senza abbassare lo sguardo, celato da un paio di RayBan scuri. L’elmetto calato sul capo nascondeva i capelli che sicuramente erano tagliati cortissimi. Mi abbandonai in quella presa forte e sicura appoggiandomi alla spalla del soldato, dura come la roccia. I rumori, attribuiti dal delirio, non erano che sussurri indistinti ed il buio era calato di nuovo sfocando quel volto di serpente.

Quando riaprii gli occhi, cercai il mio Sire sull’onda dei ricordi appena rivissuti così vividamente, ma Jack non c’era, nonostante la mia insistenza a fissare ogni angolo buio della stanzetta spoglia in cui mi trovavo. Alla fine mi arresi all’evidenza dei fatti: ero sola.
La mia lingua serpeggiò tra le labbra in un guizzo repentino che non potevo controllare, tastando l’aria senza cogliervi nessun odore, nessun sapore, togliendo anche l’ultima briciola di dubbio che potessi avere.
Allora cominciai a prendere coscienza di me stessa. Non sentivo più l’eco dolorosa della fame rossa, quindi la mia sete di sangue era stata completamente saziata mentre ero priva di sensi e questo sarebbe tornato a mio favore. Ero adagiata su un lettino, una di quelle barelle d’acciaio su cui si adagiano i cadaveri nelle sale mortuarie, freddo e spoglio giaciglio, ma più che sufficiente per noi figli di Caino che ce n’infischiamo del caldo, del freddo ed anche della comodità, tutte cose superflue per il nostro corpo morto.
Scrutai nella stanzetta mentre mi alzavo a sedere. L’unico filo di luce entrava da uno spiraglio sotto la porta sulla parete di fronte a me, ma bastava a rendere l’idea di quanto fosse vuota quella camera. Per di più, grazie alla lingua biforcuta, uno dei tratti di riconoscimento degli appartenenti al mio Clan, potevo tastare l’aria attorno a me, come fanno i serpenti, riuscendo a muovermi con una certa facilità anche in completa assenza di luce.

Indossavo ancora la camicia verde militare di Jack, ma sul lettino individuai a tentoni degli abiti puliti. Il tessuto morbido si stropicciò sotto le mie dita mentre cercavo di capire che indumenti fossero. Mi guardavo attorno, quasi cieca, mentre indossavo una camicia e vestivo le mie gambe di un paio di comodi pantaloni. Cercai di sollevare quella zip che s’incastrava ad ogni centimetro, mettendo alla prova la mia pazienza e la mia forza, perché se avessi tirato un po’ più del necessario non avrei faticato di certo strapparla via. Mi guardavo attorno e mi sentivo oppressa dalle pareti, dal soffitto e dal pavimento di cemento che sapevo si chiudevano attorno a me come una scatola. Avrei voluto poter correre di nuovo a piedi nudi per la mia amata foresta.
Tastando l’ultimo indumento trovai per primi un paio di occhiali da sole.
Anche Jack ne aveva un paio; una volta mi aveva spiegato che li indossava ormai per abitudine. Dal posto da cui proveniva, aveva aggiunto, doveva difendere i suoi occhi dalla luce.
«Tu non ne avrai bisogno…» mi aveva detto, carezzandomi il capo ed infatti per vent’anni avevo vagato per Haiti senza mai aver bisogno di proteggere questi occhi sensibili, retaggio del Clan di Jack di cui ero divenuta parte. Jack diceva che i villaggi di Haiti non erano illuminati come le grandi città da cui proveniva.
Infilai un paio di scarpe dal basso tacco. Non ci ero abituata, ma sapevo che non avrei avuto troppi problemi d’equilibrio, che avrei imparato in fretta a muovermici, così rimasi seduta sul lettino ancora un po’, rigirando tra le dita gli occhiali, la camicia del mio Sire posata sulle ginocchia come la copertina di Linus. Sebbene non avessi mai visto questo Linus, il mio Sire mi aveva raccontato qualche storiella su di lui, ma solo ora che faticavo ad abbandonare l’unico oggetto che costituiva un legame con il mio genitore ne comprendevo davvero il significato.

La luce si fece più intensa, la porta si era aperta senza rumore ed io non riuscii a sollevare gli occhi verso quel rettangolo luminoso finché non ebbi inforcato gli occhiali da sole. Un soldato se ne stava fermo sulla soglia, in silenzio, un AK-47 tra le mani, in evidente attesa che lo seguissi. Raccolsi anche la giacca abbinata ai pantaloni che indossavo e qualcosa cadde sul pavimento con un tintinnare.
Osservai un paio di medagliette militari di riconoscimento. Appartenevano al soldato semplice Amuhi. Per un momento i contorni si fecero sfocati, mentre ricordavo il viso di Dominic che mi sorrideva con lo sfondo del cielo haitiano all’alba. Quel ricordo così vivido e luminoso mi fece barcollare e mi costrinse a tornare alla realtà per non perdere il controllo. Le medagliette di Dominic Amuhi mandarono un breve bagliore sfocato per la luce che entrava dalla porta. La cosa che mi mise più a disagio fu di non essermi accorta che mi erano state tolte dal collo. Le raccolsi e nascondendo la mia perplessità, rinfilai la catena. Decisi in quell’istante che se non avevo potuto riavere il mio Dominic, almeno ne avrei portato il cognome. Sì, Amuhi mi stava bene.

Mi avviai fuori da quella stanzetta per poter seguire l’uomo, chiudendo la porta d’acciaio dietro di me.
Il soldato camminava a passo svelto e cadenzato per il corridoio vuoto. le pareti grige erano interrotte regolarmente da porte d’acciaio come quella da cui ero uscita. Se mi avessero chiesto di ritornare alla mia cella da sola forse non ci sarei riuscita. Forse.
Tenni mentalmente il conto di quante porte avessimo oltrepassato, anche se non mi sarebbe stato di nessuna utilità, non avevo intenzione di tornare indietro. Arrivammo ad un cancello di ferro. Il soldato premette un pulsante sulla parete. Una telecamera, posta al di la del cancello si mosse e s’inquadrò. Qualche momento d’attesa, poi la serratura del cancello scattò.
Uscimmo da un corridoio per addentrarci per un altro, identico.
Nel corridoio successivo l’alternanza delle porte cambiò. Non erano più in acciaio e le pareti erano di un color panna che dava un ché di squallido a quel lungo corridoio che finì con una porta in scuro legno massiccio a due ante. Il soldato l’aprì, lasciandomi passare, prima di seguirmi richiudendo la porta dietro se con calma. Mi trovavo in un ampio atrio. Due rampe di scale scendevano al piano terra incurvandosi elegantemente ai lati dell’enorme salone. Un lampadario fatto di gocce di cristallo troneggiava appeso al soffitto affrescato. Sopra di me i massicci corpi di alcuni angeli sedevano su bianche nubi, mollemente distesi a suonare arpe o bere vino. Poi, in corrispondenza del centro del soffitto le nubi si scurivano sempre più, fino a diventare nere e da esse sbucavano figure grottesche, che allungavano le loro mani artigliate fuori dall’oscurità. Quelle che arrivavano a sfiorare la parte più luminosa dell’affresco erano percorse da fiamme e scie di fumo, come se le figure angeliche fossero in qualche modo protette dalla luce che le avvolgeva.

Ciò che m’inquietò più di tutto, di quell’immagine apocalittica, furono gli occhi degli angeli. Occhi crudeli e vuoti, quasi disinteressati del male che cercava di toccarli, quasi fossero superbamente sicuri di non poter mai essere toccati. Gli occhi di quegli angeli erano identici, in tutto e per tutto, a quelli delle figure grottesche e demoniache dall’altro lato del soffitto.
Persi probabilmente parecchio tempo a contemplare quell’immagine, che aveva acceso le mie riflessioni, troppo grande e dettagliata, così nuova per me, che non ero abituata a quell’arte di una cultura indubbiamente molto diversa dalla mia semplice visione del mondo, io che avevo vissuto fin’ora nello spoglio e scarno mondo di Haiti. Il soldato rimase pazientemente in attesa che riportassi lo sguardo su di lui, per avviarsi giù dalle scale di marmo bianco. Lo seguii cercando di non dar a vedere il mio sbalordimento. Con pochi e rapidi calcoli mentali compresi che quella costruzione era più grande del villaggio dove ero nata. E ancora non l’avevo vista tutta, supponevo.
Rincorsi il soldato che mi aveva distanziato, producendo con i tacchi un rumore cadenzato sul pavimento di marmo. Quel suono mi sembrò quasi un affronto alla silenziosa imponenza di quel luogo. Mi sentivo a disagio, mentre scendevo le scale verso l’atrio del salone. Solo quando fui al piano di sotto potei vedere l’ampio portone di legno a due battenti che troneggiava di fronte all’ingresso, nascosto sotto al passaggio che, al piano di sopra, congiungeva le due rampe di scale.

Il soldato si diresse in quella direzione ed io lo seguii come un cagnolino, cominciando a sentirmi persa in mezzo a tutta quell’enorme imponenza. Il fatto che fossi una creatura pressoché immortale cominciò a sembrarmi una cosa piuttosto superflua mentre il soldato apriva la porta e m’introduceva in quell’ambiente.
Sentii un mormorio di voci zittirsi, al mio ingresso, ma non capii un granché di ciò che esse dicessero, parlavano una lingua a me sconosciuta.
Raddrizzai le spalle e racimolai il mio coraggio, sollevando il viso e lasciando scivolare lo sguardo nel salone semivuoto, sulle poche figure presenti ed ammassatevi in fondo.
Il soldato parlò con tono alto e deciso, ma capii solo “Amuhi”, di tutto quello che disse. Presumetti che avessero pensato che le medagliette che portavo al collo fossero le mie medagliette identificative. Questo mi rianimò non poco, dandomi la spinta necessaria a fare qualche passo avanti al gesto d’invito di uno degli uomini presenti. Lo riconobbi.
DelDuca sorrideva con tutti i suoi bianchi denti scintillanti mentre mi faceva cenno di avvicinarmi, vestito con un completo nero che lo faceva sembrare assolutamente in tono con quel luogo sontuoso.

«Samara, è così che ti chiami?» DelDuca mi parlava e mi guardava come se stesse guardando una selvaggia. Mi sentivo un po’ come Mowgli ne Il libro della giungla. «Vieni, spero che avrai riposato bene…» sorrise in modo forzato e questo mi dette fastidio ben più delle occhiate degli altri presenti, tra cui un uomo comodamente seduto su un imponente seggio al centro della sala. Sebbene Jack mi avesse tenuta lontano da ambienti come quello, capii che avevo imparato molto, passando i miei primi vent’anni di quella nuova condizione ad ascoltare i suoi racconti.
«Sì, mister DelDuca, il mio nome è Samara Amuhi e non sono molto più selvaggia di lei. Non sono stata cresciuta da animali, ma da persone, anche se meno civilizzate di voi, quindi se non le dispiace, potrebbe togliersi dalle labbra quel sorriso e dirmi dove mi trovo?» il mio tono fu secco e deciso, quel tanto che bastava per spiazzare il mio interlocutore e cercare di mostrare un lato sicuro di me che in realtà non esisteva, non senza Jack. La sala piombò nel silenzio, che venne interrotto da una risata divertita. L’uomo seduto sul seggio rideva in modo garbato, una mano davanti alle labbra a cercare di soffocare l’accesso d’ilarità come se fosse sconveniente.

Era vestito con un paio di pantaloni neri alla cavallerizza, stivali in morbido cuoio ed una pomposa camicia color rubino, fatta di merletti e pizzi che ne incorniciavano il volto ceruleo e bello, dai lineamenti fini. Gli occhi, due punti neri che spiccavano nel pallore del viso, erano fissi su di me, e quando tolse la mano potei vedere le labbra sottili distese in un sorriso divertito. Mi fece un lieve cenno con l’indice ed io ignorai del tutto DelDuca per avvicinarmi a quell’uomo, indubbiamente più importante e carismatico tra tutti gli altri, che in quel frangente mi apparirono come tanti corvi accovacciati su un ramo.
«Miss Amuhi, è un piacere incontrarla. Lei ha lo stesso spirito goliardico del suo Sire, Mister Stone.» l’uomo aveva un timbro di voce profondo, i suoi modi affettati trasparivano altrettanto dal suo modo di parlare.
Mi parve di scorgere, in fondo ai suoi occhi, un’antichità mai vista prima, eppure il suo viso era il più giovane, tra i presenti.

Il richiamo a Jack mi fece scattare di un altro passo avanti.
«Dov’è?» chiesi di slancio, sebbene sapessi con assoluta certezza che non gli era successo nulla. Nulla di mortale, per lo meno.
Ad un gesto della mano di quell’uomo due corvi presero il volo. Fu esattamente questa l’impressione che mi diedero mentre si voltavano e s’incamminavano verso il fondo della sala. Quando oltrepassarono le mie spalle non li seguii più con lo sguardo, tornai invece sul mio interlocutore che accennò un sorriso indulgente.
«Se avrete pazienza lo rivedrete presto, per ora vorrei scambiare due parole con lei.» fece una breve pausa, mentre mi osservava, come in evidente attesa di qualcosa, qualcosa che non arrivava, poiché la sua espressione perfetta si corrucciò e lo sguardo si spostò su DelDuca.

«Dovete perdonarla, Principe, non conosce il protocollo, non è stata istruita.» disse il parassita, nella sua voce più tranquilla. Con la coda dell’occhio colsi il suo avvicinare, ma questo non bastò ad anticipare il suo colpo. La forza con cui mi colpì il retro di un ginocchio mi fece vacillare. Riuscii a non lasciar trasparire la sorpresa, mentre piegavo il ginocchio colpito per poggiarlo al suolo, allungando al contempo le mani per sostenermi.
«Che modi…» commentò il Principe con un inflessione divertita che non mi sfuggì nemmeno se non lo stavo guardando. Sibilai, sollevando il capo di scatto per cercare la figura di DelDuca, ma intuii che era meglio evitare di fare altrettanto con quell’affettato damerino che stava seduto sul suo trono.
Conoscevo il protocollo di cui parlavano, ma ritenevo che avessero violato loro per primi la regola dell’ospitalità, per cui attenermi al protocollo mi era sembrato stupido. Capii, invece, che sarebbe stato meglio accontentarli, ancora per un po’, almeno.
«Vi porgo i miei saluti, Principe, il mio nome è Samara Amuhi, figlia di Jack Stone, figlio di mama Maria Delembert, anziana del Clan dei Serpenti di Luce e chiedo la vostra ospitalità nel vostro regno, giurando di mantenere fede alle vostre leggi ed alle tradizioni che regolano la nostra società.» la mia voce suonò retorica, nell’aria immobile della sala. Sentii il frusciare di abiti e poi il suono di stivali che si avvicinarono a me, girandomi attorno. Sbirciando di sottecchi riconobbi gli stivali del Principe. Mi girava attorno come uno squalo, osservandomi come fossi un animale grazioso ed interessante. E la cosa noiosa è che era proprio così che mi sentivo.

«So che il colonnello Stone ha sempre odiato queste… come le chiama lui?» una pausa d’effetto, palese, pessima recitazione «Ah già: farse. Quindi sarò breve. Sono il Principe Francesco di Lorena e ho una stirpe di avi e progenitori che annoierebbe chiunque, in questa sala, mi limiterò dunque a questo, anche se odio fare presentazioni così grezze. Comunque, mia piccola figlia, spero che vorremo venirci incontro.» il tono apparentemente tranquillo era una recita talmente perfetta da scivolare nell’irreale, nel fasullo. La sua mano entrò nel mio campo visivo, mi prese il emnto sollevandolo per guardarmi in faccia mentre parlava «Vedi, il tuo caro genitore non aveva diritto di Abbracciarti, non prima di aver ucciso tutta la gente del tuo affascinante villaggio, per lo meno. Cosa che non ha fatto, dunque tu adesso non dovresti esistere.» mi scrutò negli occhi, una smorfia di aggraziato divertimento, finta come tutto il resto della sua apparenza «A dire il vero penso tu sia una contraddizione in termini, perché anche tu dovresti essere morta insieme a tutti gli altri.» mi rivelò con serafica calma ed un sorriso così inquietante che m’irrigidii. Certo la cosa non sembrò sfuggirgli, perché rise di me, mentre mi lasciava e mi dava le spalle, tornando al suo trono.

Allora scattai.
Le mani di DelDuca furono veloci, ma non abbastanza da prendermi. Diedi fondo a quel poco che avevo imparato di me stessa in quegli ultimi vent’anni. Non avevo speranza di sopravvivere, contro ad una creatura antica come Francesco di Lorena, eppure la rabbia, l’impulso di difendere la mia non-vita, mi spinse in avanti e mi ritrovai aggrappata alla sua schiena, con i denti affondati nel collo di quella creatura che si spacciava per principe, che si attorniava di marmi bianchi e lecchini in giacca e cravatta. Morsi con tutta la forza che avevo nelle mascelle e strappai forse un brandello di carne quando le mani di Francesco mi afferrarono con sicurezza e mi scaraventarono via come fossi una bambolina di pezza. Sbattei con la schiena contro il trono, ribaltandolo con uno schianto, ma il rumore più forte che sentii fu lo spezzarsi della mia colonna vertebrale. Mi ritrovai riversa al suolo, con gli occhi fissi verso il mostro che ora sollevava una mano al collo con una smorfia, mentre con l’altra fermava i gesti degli altri presenti, congelandoli sul loro posto. Una smorfia gli sfigurava la perfetta espressione di poco prima.
«Sei davvero un animaletto eccezionale…» commentò, guardandosi le dita insanguinate per qualche istante, prima di leccarne il sangue con evidente soddisfazione. Allora mi accorsi che avevo qualcosa in bocca, che impediva alla mia lingua serpentina di schizzare fuori, in un moto di sfida. Sputai un brandello della sua camicia scarlatta e forse anche un pezzo di carne, non lo so, non guardai, ero troppo concentrata a fissare quella creatura che avrei voluto fare a pezzi con le mie mani.

«Tu hai ucciso mama, tu hai ucciso Dominic, tu hai ucciso tutti…» la mia constatazione risuonò roca alle mie orecchie, ma chiara e colma di accusa.
Il Principe rise. Rise così forte che non mi accorsi, nel mentre, che dietro di lui le porte si erano aperte e che i due corvi usciti poco prima trascinavano qualcosa sul pavimento.
Se io potevo sembrare patetica, riversa al suolo, senza possibilità di muovermi, la cosa che quei due trascinavano accese una pietà profonda dentro di me. Solo il guardare quella creatura sentivo sofferenza e rabbia ed il riverbero lontano di qualcosa simile alla caparbietà. Compresi subito che era Jack.
L’avevano ridotto al minimo delle sue possibilità offensive, talmente sporco da non poter capire quali ferite fossero aperte e quali no, certo sembrava che le sue condizioni fossero gravi, eppure era cosciente, perché sollevò i suoi occhi di serpente e incontrò i miei. Ma non erano né intelligenti come ricordavo, né svegli. Il sorriso strambo che mi rivolse mi fece capire che era drogato. Lo lasciarono cadere con un tonfo e lui prese a gemere di dolore, raggomitolandosi al suolo. Distolsi lo sguardo. Il suono degli stivali del principe mi annunciarono il suo avvicinarsi. Mi prese per le ascelle e mi sollevò, scrollandomi un po’, quando lo guardai in viso non vidi più quell’affettata espressione angelica che aveva fino a poco prima. Non sentivo niente dal collo in giù, ma potei vedere che la ferita che gli avevo inferto si stava rimarginando. Lentamente, ma non era poi così grave come credevo.

«Volevi vedere il tuo Sire, vero? Eccolo qua, sei contenta?» mi domandò con una punta di crudeltà, mi tenne in piedi perché io non potevo farlo, qualcuno risistemò il trono e dopo un momento mi ci lasciò cadere per poi volgersi a guardare quello che probabilmente riteneva uno spettacolo affascinante. Allacciò le mani dietro alla schiena e riprese a parlare con indifferenza.
«Miss Amuhi, come ha intuito non ha scelte. Il suo Sire si rifiuta di pagare quello che noi riteniamo sia un debito piuttosto ingente. Ha disobbedito ad un ordine ed ha disertato le nostre fila per venti anni. Ha creato un’infante senza permesso e peggio ancora non me l’ha doverosamente presentata. Capisce che se lui non vuole pagare il suo debito, qualcun’altro dovrà pur farlo vero?» mi rivolse un’occhiata da sopra la spalla «Lei mi sembra una giovane promettente, potente, vedo magia attorno a lei ed è indubbia la sua intelligenza, la vedo nei suoi occhi. Come leggo che ancora è troppo umana per sopportare questa scena… patetica.» sputò l’aggettivo con ironia, tornando a guardarmi ora direttamente «Questa non è una richiesta, miss Amuhi, ma un ordine. Lei ha il dovere di pagare il debito, mettendosi al servizio della mia corte.» mi osservò.

Faticai a ritrovare la voce, ma m’imposi calma.
«E quale sarà il mio compenso?» domandai con relativo pragmatismo «Io ne avrò anche il dovere, ma il mio sire mi ha insegnato che il mio Clan non è sotto al vostro dominio, che noi abbiamo diritto a chiedere un pagamento per ogni nostra azione.»
Il sorriso soddisfatto tornò sulle labbra di quella creatura disumana.
«Certo. Il compenso che percepirà però, dovrà essere commisurato al compito affidatole. Un respiro per un respiro, una vita» e diede un’occhiata fugace ma significativa a Jack «per una vita.» e tornò a guardarmi «Sigliamo l’accordo?» chiese, anche se sapeva perfettamente che non avevo alternative.

La risata dolorante di Jack mi fece tremare, volevo correre da lui e abbracciarlo e dirgli, come lui aveva fatto con me tante volte, che andava tutto bene, ma non potevo.
Abbassai lo sguardo e mi rassegnai al mio Destino.
«Si.» dissi, semplicemente.
Se Jack fosse stato in se mi avrebbe dissuasa dall’accettare, mi avrebbe sicuramente convinta che stavo facendo un errore, ma la non-vita di Jack adesso dipendeva da me ed il principe aveva ragione, ero ancora troppo umana, per non subire gli effetti di quella scena, dei suoi risvolti drammatici e dolorosi. E il Principe questo l’aveva calcolato.
Maledetto bastardo.

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Pubblicato da Shekinah

Sono la burattinaia, sono il filo che da oggi reggerà il tuo burattino Sono colei che muoverà le dita ad indicare la tua sorte. Obbligherò le tue membra ad alzarsi contro il volere della Natura stessa, senza che tu possa fermarmi. Eseguirai la mia danza. E ti piacerà.

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