[Cronaca] Haiti’s Voodoo Nights – 2

D’un tratto apro gli occhi.
E’ come quella sensazione che si prova quando ancora si è vivi, in fase di crescita. Quando te ne stai ad occhi chiusi, coricato, e ad un tratto ti senti precipitare.
Ti svegli di soprassalto, scombussolato e boccheggiante.
Ecco, eliminando la parte del soprassalto e del boccheggiante, è la sensazione di confusione a dominare, almeno fino a quando la luce non ferisce le mie pupille sensibili.
Mi raggomitolo d’istinto, rapida, su me stessa, coprendomi il viso con le braccia, un riflesso. Nessun dolore.
Mi accorgo solo dopo qualche secondo che sono coricata su un comodo letto. Mi sollevo a sedere e scopro che non è luce solare. E’ forte, mi da fastidio, ma nulla di più. Per un attimo mi si gela il sangue nelle vene, quando mi accorgo che proviene da un’apertura circolare della parete, una specie di grande oblò. E’ una luce giallastra, soffusa e malaticcia, quasi fosse quella di un sole finto.
Spostando lo sguardo infastidito sulla camera mi accorgo che è spoglia, e come metto i piedi a terra la porta si apre ed una giovane entra, l’aria tranquilla.
Cerco disperatamente i miei occhiali da sole, per mia fortuna sono integri, finiti, chissà come, tra le pieghe delle lenzuola. Ora posso guardare la sconosciuta.
Il viso è un insieme di tratti fini e delicati, quasi appuntiti, belli, tutto sommato, ma con qualcosa di ultraterreno, d’inquietante. Come se da un momento all’altro potesse spalancare la bocca e rivelare una dentatura peggio di quella di uno squalo.
Rimango per un momento a fissarla, quindi mi decido. La mia voce risulta più insicura di quello che avrei voluto, ma che ci posso fare?
La situazione mi ha un po’ sconvolto.
«Mi scusi… dove sono i miei… compagni di viaggio?»
La scruto, dubbiosa, chissà se comprende il mio linguaggio. Ma un suo gesto ampio della mano, che indica la porta della camera dalla quale lei stessa è entrata, mi convince che abbia capito, così come mi convince la sua voce che quella non è una creatura comune.
«A ognuno è stata assegnata una camera, ma credo che si stiano svegliando tutti ormai.»
E’ una voce sibilante e gorgogliante, ma con una musicalità strana, che attira, che chiede attenzione.
Sbatto le palpebre, un po’ stordita dal quel suono. “Forse basta farci l’abitudine…” mi dico tra me e me, ma non ne sono convinta davvero.
La fanciulla è sempre li, immobile, ad invitarmi ad uscire, ma io ho qualche problema a stare in piedi, come se fossi stata per mare per anni ed ora fosse la prima volta, dopo così tanto tempo, che rimetto piede a terra… o il contrario… insomma il risultato è che mi devo appoggiare un attimo al letto per riprendere l’equilibrio e potermi dirigere alla porta.
Tutto è tondeggiante, dal letto alla finestra, alla forma stessa della stanza.
Anche la porta è tondeggiante e la maniglia che la apre non è altro che un pomolo dorato. Aprire quella maniglia mi richiede più forza di quanto mi fossi aspettata e per poco ho creduto che fosse chiusa a chiave. Invece alla fine la maniglia cede ed io mi ritrovo in un largo corridoio pieno di porte da entrambi i lati. Mario è già in giro, con la sua fidata telecamera e nello stesso momento in cui io richiudo la porta anche gli altri escono, chi più, chi meno stordito, dalle camere vicine.
Ci guardiamo in faccia.
Abbiamo tutti un aspetto pessimo. Il pallore che solitamente distingue la nostra pelle da quella di un normale umano è accentuato e reso malsano dalla luce gialla che filtra dalla vetrata del soffitto.
«State tutti bene?» Ivan passa il suo sguardo indagatore su tutti noi, ad uno ad uno.
«Dobbiamo andare dalla signora di questa casa e porgerle i nostri saluti… oltre che capire chi è e che cosa voglia…»
Dalle nostre porte escono le giovani donne, tutte, se non uguali, decisamente molto, troppo simili tra loro. Una di esse si avvicina, indicandoci il corridoio, in una direzione.
«Se volete seguirmi, la Signora sarebbe lieta d’incontrarvi.»
Di nuovo quella voce bellissima e nauseante allo stesso tempo. No, mi convinco sempre più che non ci si possa abituare mai a quella voce.
La seguiamo, tutti in silenzio, tranne Mario che continua a girarsi attorno, filmando con la sua telecamera e commentando a mezza voce.
La strada da seguire è un labirinto di corridoi, scale, saloni e ancora corridoi, tanto che perdo l’orientamento, fino a quando ci fermiamo davanti ad una porta a due battenti, sulla quale sono intarsiate figure femminili e code di pesce che sgusciano l’una attorno all’altra fino a confondersi.
La giovane spinge la porta, aprendola, quindi si sposta da parte, lasciandoci passare.
Fandango e Ivan avanzano, noi li seguiamo, in ordine un po’ sparso, confusi, non sapendo cosa dovremmo aspettarci.
Ci troviamo in un ampia sala, colonne intarsiate e sottili sorreggono un soffitto a volta, ampie vetrate azzurre sui lati, dagli angoli smussati.
Un trono di legno massiccio, foderato in morbido velluto porpora stà a circa tre quarti della sala, davanti ad un’altra porta, più piccola e modesta di quella da cui siamo entrati noi e dalla quale, dopo un minuto entra una figura minuta, dai lunghi capelli neri e ricci, vestita alla moda dei corsari spagnoli, una sciabola legata alla vita. Emana una sorta di fascino ad ogni minimo gesto e senza che ce ne possiamo accorgere tutti, indistintamente, la onoriamo di un inchino.
La donna slaccia la lama, posandola accanto a se mentre si accomoda sul trono.
«Buongiorno, sono lieta di scoprire che state tutti bene.»
Il suo tono è cortese, impossibile non ascoltarla, la sua voce vibra come la corda di un violino, musicale ed affascinante, nelle nostre orecchie, infilandovisi fino ad entrare fastidiosamente nelle nostre teste, arrotolandosi attorno al nostro cervello come fosse un gatto che fa le fusa.
Ivan e Fandango sembrano molto infastiditi, mentre Ian sembra penderle completamente dalle labbra.
Fandango si fa avanti, senza mezzi termini.
«Si, si, buongiorno, Fandango Mordecai, Ductus dei Black Wolves.» un rapido gesto verso di noi a presentarci «Vorremmo andarcene da qui, abbiamo affari urgenti da sbrigare e poco tempo per sbrigarli, se non le spiace.»
La donna solleva appena un sopracciglio.
«Ma voi non potete andarvene senza aver pagato la tassa…» risoluta nel tono. «Dovete lasciarci del cibo…»
Ivan rimane perplesso per un momento.
«Ci deve essere un errore signora… non trasportiamo cibo. La nostra è una missione, come dire… diplomatica.»
La donna sposta il suo sguardo acuto su Ivan annuendo.
«Ma certo, monsieur. Lo so benissimo. Infatti mi riferivo agli umani del vostro equipaggio. Siamo rimasti a corto di…» un lieve sorriso ironico mentre fa un cenno vago con la mano «… vettovaglie.»
Ivan e Fandango ci lanciano un’occhiata, siamo tutti increduli. Ma dove siamo finiti?
Il Ductus si gratta il mento perplesso, scuotendo il capo.
«Veramente l’equipaggio ci serve… altrimenti come ci arriviamo ad Haiti? Mi spiace, signora, ma non possiamo accontentarla…»
La donna scende dal suo trono, recupera la sua sciabola e ci si avvicina a passo tranquillo, raggiunge Fandango, lo oltrepassa, lancia un’occhiata a Selene, una a Mario, quindi si sofferma su Ian per qualche istante.
«Sei stato tu ad attaccare la mia bella galea vero?» Assume un tono dispiaciuto, come fosse una bambina a cui abbiano rotto il giocattolo più bello e prezioso di tutti, ignorando tutti gli altri.
«Mi è venuta un’idea… potrei accontentarmi di uno o due uomini del vostro equipaggio, se tu…» pone l’indice sul petto di Ian, osservandolo da sotto in su, ma senza nessun timore né esitazione. «Hai il coraggio di venire con me…» aggrotta appena le sopracciglia «Perché sei tu che hai distrutto la mia piccola Goccia, giusto?»
Ian la osserva, quindi ci guarda, come a chiederci cosa fare. Ivan alza le spalle, indifferente, Fandango lo osserva, un po’ preoccupato ma nulla di più. Per me è indifferente, anche se una proposta del genere mi preoccupa di più che se la minuta Signora fosse stata invece un lottatore professionista di Wrestling alto due metri e passa e con due spalle come un armadio a due ante… un po’ come Ian insomma.
Lui la guarda dall’alto, l’indifferenza, tipica sua espressione torna a dipingerglisi in viso, alza le spalle.
«Va bene, andiamo.»
Non so se sia tanto coraggioso da poter affrontare qualsiasi cosa senza timore, o se sia tanto stupido da non rendersi conto di cosa potrebbe trovarsi ad affrontare; ma più probabilmente è un misto delle due cose. Alla fine coraggio, stupidità e un pizzico di spavalderia sono le cose che distinguono di più il carattere di Ian… insieme ad un po’ di esibizionismo, chiaro.
Noto un movimento di Selene, rapido, un’occhiata a Ian che lui ricambia rapidamente, mentre si avvia al seguito della donna, oltre la piccola porta, per passare dalla quale lo zanzarone deve chinarsi.
Il “clack” della porta. Silenzio.
Rimaniamo tutti a fissare la porta perplessi, mentre il tempo si protrae, stiracchiandosi come un gatto assonnato, stentando ad andare avanti.
Ad un tratto un urlo, anzi no, un ringhio. Fandango e Selene sono i primi a scattare in avanti verso la porta, lui accigliato resta in ascolto, mentre lei colpisce la superficie liscia, facendo vibrare la porta sotto al colpo secco dato con il lato della mano chiusa a pugno.
«Ehi, tutto a posto?»
Un altro ringhio di Ian, sembra un po’ scocciato, ma niente di più.
«Si…»
Siamo tutti tesi come corde di violino e quando la porta si apre anche Mario, che probabilmente fingeva la sua tranquillità, si gira di scatto ad osservare un Ian che esce dalla porta, borbottando qualche cosa d’incomprensibile e lanciando letteralmente una scatola a Selene, che nonostante la sorpresa la prende al volo.
Poi si dirige fuori dalla stanza, senza degnare nessun’altro di uno sguardo, senza nemmeno aspettarci.
Mi vien da pensare che qualcosa di quello che ha visto dentro quella stanza lo ha scosso più di quel che vorrebbe dare a vedere, ma alla fine che mi frega? È un problema suo…
Lo seguiamo fuori dalla sala, sembra che tutti abbiano perso la voglia di parlare. La donna che prima ci ha accompagnati fin li ci conduce ora verso l’esterno per le vie di quella che sembra una vera e propria città. La luce giallastra che illumina a giorno tutto quanto non ha una sorgente definita.
Spingo ben su gli occhiali da sole per proteggermi gli occhi, troppa luce, anche così avverto il fastidio, ma mi guardo attorno lo stesso, strizzando all’inverosimile gli occhi, che cominciano a bruciarmi.
Tutto in quel luogo è tondeggiante, anche fuori dalla casa della Signora. I tetti, le case, le finestre, le porte, non mi stupirei di scoprire che siamo chiusi in una bolla.
Veniamo condotti verso la nostra nave, intatta, pronta alla partenza.
«La Signora dice che potete salire, ha già preso ciò che le spettava. Buon viaggio.» la voce della donna mi graffia, suadente, i timpani per l’ultima volta prima di allontanarsi. Un Ivan perplesso la segue con lo sguardo.
«Andiamocene da qui… ne ho avuto abbastanza…»
Mi attardo un attimo a guardarmi attorno, salendo per ultima.
Scendo sottocoperta, stanca di tenere gli occhi strizzati per la luce. Mi siedo sulla mia cuccetta e appoggio la schiena alla parete, l’oblò oscurato non lascia passare luce, sono al buio completo, unico rumore è quello dei motori della nave che si avviano, mentre il dondolio aumenta… abbiamo salpato.
Sento le voci concitate dell’equipaggio, ogni tanto capisco qualche parola quando passano vicino alla mia cabina, quella che mi colpisce di più è “sirene”.
Dopo diversi minuti il rollio della nave si acquieta ed io comincio a sentire la stanchezza pesarmi addosso, l’alba si stà avvicinando e l’unico pensiero che mi balena per la testa è: “Siamo in ritardo…”
Alla fine anche gli occhi smettono di bruciarmi e quando mi chiamano sul ponte, dopo qualche ora vedo il porto avvicinarsi, ancora un’ora al sorgere del sole, più o meno.
Incredibile, non siamo in ritardo e le altre due navi avanzano placide assieme alla nostra, come se nulla fosse successo.
Alla fine approdiamo a Port de Paix, ma questo viaggio è stato sconvolgente, soprattutto quando, parlando con l’equipaggio delle altre navi, ci dicono che non siamo mai spariti dai loro radar e che non poteva filare tutto più liscio di così.
Non ho parole, si vede che abbiamo avuto un’allucinazione collettiva… però due membri dell’equipaggio sono spariti sul serio e Selene ora ha quella scatola che ancora non ha aperto.
Ma non è il momento di pensarci ora, c’è una missione più importante da sabot… ehm, da portare a termine naturalmente.

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Pubblicato da Shekinah

Sono la burattinaia, sono il filo che da oggi reggerà il tuo burattino Sono colei che muoverà le dita ad indicare la tua sorte. Obbligherò le tue membra ad alzarsi contro il volere della Natura stessa, senza che tu possa fermarmi. Eseguirai la mia danza. E ti piacerà.

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